lunedì 16 settembre 2013

IL SILENZIOSO FRAGORE DEL NOSTRO MONUMENTO


Leggo Leopardi, a me piace molto. Mi piacciono i suoi pensieri, il suo stile, persino il suo esasperato pessimismo.Mi piace il colle del suo infinito, la sua siepe, la profondissima quiete. Il suo dolce naufragare.
Mi piace Leopardi che volge lo sguardo all'antico, al ricordo, alla memoria. Il poeta che scrive Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, questo suo ricercare l'antico in contrapposizione al moderno la favola classica contro il fantastico sregolato, come avrebe definito il giorno d'oggi.
Gli anni del mio liceo dai padri Pallottini a Cetraro, in Calabria,hanno forgiato questo intenso interesse verso Leopardi, nient'affatto celato, tenuto nascosto.
Mi piace anche il Leopardi, sentimentalista. Quello che scopro nelle sue composizioni all'ItaliaSopra il monumento di Dante siamo nell'anno 1818, se non ricordo male, si indaga il tema di una grandezza decaduta da ripristinare. La grandezza italica. Così come oggi, si ritorna a fare.
Mi piace il Leopardi dell'insistente richiamo ai " muti silenzi delle rovine e alla silenziosa magniloquenza dei monumenti che ricordano un passato di gloria " e come non pensarci, come non rifletterci.
"La vostra tomba è un'ara"scriveva il nostro recanatese.
Mi piace questo gigante della nostra cultura, che pensa ai dunque monumenti di questa nostra Italia, martoriata, distrutta, impoverita. Annientata da un manipolo di politici, incapaci di comprendere cosa sia il bene pubblico.
I monumenti, appunto.
Ecco lo scoglio, duro, del dimenticatoio. Il nostro monumento ai caduti, sperduto, relegato nell'ombra e nel polveroso terreno di un giardino che tale non è più.
Orsù, ridestiamo, l'antico simulacro che silenziosamente, ricorda ai posteri l'arduo sacrificio di giovanissimi ragazzi slegati dal cordone ombelicale familiare e scaraventati fra i fuochi delle battaglie. A morire. Per chi? per che cosa?
Me lo ricorderò, se lo terrò davanti, ogni giorno, ogni momento di un passaggio sulla piazza. Ne ricorderò i nomi, i cognomi, ricorderò la loro vita spezzata, le lacrime di tante madri, che perdute nel silenzio del vuoto che hanno vissuto, anelano rivedere il volto che non c'è più. 
Non amo risentire antiche urla si campo di battaglia, per ricordare a noi stessi e ai posteri, ciò che furono e che non sono, questi nostri figli persi. Per la nostra libertà. Per il nostro Paese.
"Senza baci moriste e senza pianto". Mi piace Leopardi, perchè me lo ricorda ogni giorno.

mercoledì 12 dicembre 2012

SULLE STRADE STERRATE DI PADRE ARTURO OCCHIUZZO

La strada che conduce a Goianases in Brasile, nello stato di Minas Gerais
Il Brasile lo scopro anche così. Come? Attraversando strade sterrate di terra rossa, qui nello stato di Minas Gerais. Nei luoghi della produzione del caffè. Dove le verdi piantagioni di caffè si notano in ogni dove.Su queste strade un tempo ormai lontano, un piccolo (di statura) sacerdote calabrese di Cetraro, andava su di un vecchio carretto trainato con forza da un cavallo, dirigendosi fra la polvere sollevata dall'incedere del quadrupede verso Goianases nel municipio di Capetinga.
E dove andava padre Arturo? Me lo racconta un sacerdote brasiliano diventato mio amico,che mi accompagna su queste strade sperdute nel grande Brasile: padre Hiansen.Il sacerdote cetrarese che nacque nel vecchio quartiere della Porta di Mare,emigrò in Brasile,varcando l'oceano dopo aver compiuto circa vent'anni del suo sacerdozio in Italia. Andava a dir messa nel piccolo villaggio di Goianases alla domenica. per quei pochi abitanti che vivevono in questi campi, dediti al lavoro quotidiano agricolo. Non mi è difficile pensare la grandezza di questo sacerdote che non cercava nulla se non il bene del prossimo. Facendolo in silenzio, senza casse di risonanze: da queste parti, in Brasile,padre Arturo è quasi un mito. Ed è ricordato in ogni luogo della città di Campestre,dove visse i suoi ultimi quattordici anni  di vita oltreoceano.
Qui, costruì una chiesa dedicata alla Madonna del Carmine, tanto cara a lui, per essere la sua chiesa nel vecchio quartiere del centro storico cittadino a Cetraro. La sua vita brasiliana,fu tutta dedicata al prossimo, ai deboli, alla organizzazione sociale. Era anche medico, e spesso accoglieva la gente in sagrestia.
Campestre gli è grata. E lo testimonia. Presto farò una conferenza a Cetraro, dove parlerò di ciò che questo piccolo, grande sacerdote fece. Affinchè anche Cetraro, sappia ciò che fanno i suoi figli che hanno vissuto fuori.

giovedì 27 settembre 2012

PERCHE' CI SERVE UN MONUMENTO AGLI EMIGRATI

Bauli di emigrati ( foto scattata presso Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires )
Le pietre parlano. Anche quando sono mute. Perchè sono memoria di un evento, di un passato. Sono storia.
Seppur nel loro mutismo secolare, ci riportano indietro nel tempo e ci raccontano di cose lontane, passate, spesso dimenticate. Soffermarci davanti a queste pietre, a questi momumenti, serve a ricordarci che un tempo lontano accadde che...
Serve, dunque non dimenticare. Lo diceva bene un uomo, che del giornalismo e della cultura, ne ha fatto la sua ragione di vita Indro Montanelli. Era solito dire che se non guardiamo bene al passato, non vivremo bene il nostro presente.Cosa vera e giusta. In fondo anche i Romani, che si facevan carico della memoria dei Mores Maiorum, dei consigli degli antichi,avevano capito qualcosa o no?
Fra le pietre, che mi piacerebbe vedere nel mio paese, Cetraro, arroccato su di uno sperone roccioso che offre il suo intricato dedalo di vicoli ed i suoi vecchi palazzi al mare, una, una sola, dedicata ai nostri emigrati in terre vicine e lontane. 
Gente spesse volte dimenticata, allontanata dalla memoria. Eppure ci ha dato tanto, molto. Ma l'abbiamo dimenticata. Non volutamente, ma per disattenzione, distrazione della quotidianità.Ma in altri posti non è così, la memoria dei propri emigrati è viva nel ricordo quotidiano di molte cittadine, di molti paesi.
Ecco, perchè credo che sia giunta l'ora di ricordare il sacrificio di queste persone, di intere famiglie sparse in terre lontane, che il più delle volte non hanno avuto l'occasione per ritornare nei loro paesi.
Non ci vuole molto, basta solo volerlo e credo si farà. Per volontà di tanti, che vedono in questo momunento, altorilievo o qualsiasi cosa sia, un motivo per ricordare un proprio caro, un congiunto, un amico partito tanti anni fà e mai più rivisto.
Sensibilità dunque cerchiamo, nient'altro che questo. E mi vien da pensare come sia tanta la volontà sparsa in altri luoghi nel ricordare uomini e cose legate alla emigrazione. 
Fra poco partirò per l'Argentina, ma prima farò tappa in Brasile dove nello stato di Minas Gerais, sud del grane Paese sudamericano, esiste una piccola cittadina di nome Campestre, qui, in questo luogo lontano ed a noi sconosciuto, ha compiuto la sua opera missionaria un prete cetrarese don Arturo Occhiuzzo, che ne è stato il più grande benefattore, avendo costruito chiese ed altre strutture per la comunità.A questo prete che guidò la chiesa di San Nicola nel centro storico di Cetraro, hanno dedicato a Campestre una via ed un busto bronzeo, per ricordare come questo prete emigrato dalla lontana Italia ha dato sollievo ad una intera communità.
Beh, seppur missionario, don Arturo era un emigrato e per quattordici anni visse in quella terra generosa del Brasile.
Ho accolto con piacere l'invito rivoltomi da autorità di quella cittadina ed andrò a conoscere e poi raccontare questo luogo lontano nel quale il sacrificio di un "paesano" ha prodotto molte cose buone.
Ma anche chi  ha prodotto meno per la comunità in cui ha vissuto, se non il sacrificio del proprio lavoro, deve essere ricordato. Ecco perchè vorrei un monumento all'emigrato cetrarese. Lo vorrei,appunto, nel centro storico del mio paese:Cetraro. 
Perchè io, non dimentico questo sacrificio.Perchè lo vedo spesso con i miei occhi.

giovedì 23 agosto 2012

NUOVO CINEMA PARADISO ED IL VECCHIO CINEMA CALANDRA

L'entrata del Cinema Calandra a Cetraro negli anni '50.
Il viaggio è lungo. In volo sull'Atlantico, ritornando in Italia da Buenos Aires, dò una occhiata ai film che ci riservano in economy. Sono le 2 del mattino, ora italiana, siamo in viaggio da quasi 8 ore, la notte sull'immenso Atlantico, concilia il sonno ai viaggiatori, già stanchi. Una bella sorpresa, trovo Nuovo cinema Paradiso e come faccio spesso quando mi viene in mente, ne accetto la visione. Il perchè è presto detto.
Non solo perchè è un grande film diretto da un superbo regista qual'è Tornatore, non solo perchè c'è una grande colonna sonora di un maestro come Morricone. Ma soprattutto perchè questo film, mi riporta indietro negli anni, direttamente nel mio paese in Calabria a Cetraro, direttamente nella mia casa. Là dove c'era il cinema Calandra messo su da mio nonno Luigi. Da un anno era tornato con la sua famiglia dall'Argentina dopo una emigrazione durata dodici anni.
Era il 1949, vigilia di un Natale freddo e gioioso dopo una guerra ormai lontana, e l'aria di quella festa, si respirava per le vie del centro, nei suoi vicoli, nella sua piazza. Si respirava aria di novità anche in quella sala, che offriva al paese un nuovo cinema.
Era festa fra i cetraresi, c'era allegria, folla e confusione. Calca per entrare. 
"Vado al cinema" dicevano nella piazza del Popolo, "stasera apre il nuovo cinema Calandra". La famiglia era al completo, mio zio Turo accompagnava gli spettatori, mio nonno alla biglietteria. Mia madre, la più piccola della famiglia, seduta in sala con mia nonna.Mio zio Aldo, fratello di mia madre, era in cabina di proiezione che era proprio nella casa dove abito ancora oggi.
Cosa c'è di diverso fra le scene del film e quelle di casa mia? Al di là del luogo e dei protagonisti e della storia, nulla di nuovo: per me.
Ancora oggi, dove c'era la vecchia macchina da proiezione a carboncino, quella vecchia stanza, noi la chiamiamo la cabina. Ancora oggi è come allora, non l'abbiamo toccata. Non c'è la macchina, ma restano le finestrelle della proiezione della Microtecnica di Torino. Accanto, il banco della raccolta delle bobine fra il primo ed il secondo tempo. Io le riavvolgevo spesso. Mio zio Turo, mi dava cento lire per ogni bobina riavvolta. Era gioia per me. Ed aiuto alla causa. Ogni tanto si rompeva la sottile pellicola, ed allora era corsa contro il tempo per rimetterla insieme, usando un nastro ad hoc, che poi lasciava immancabilmente fare crack nella visione in sala. Talvolta anche mia zia Nuccia, moglie di Aldo, dava una mano, passando molto tempo alla macchina da proiezione.
In sala, si vendevano caramelle nell'intervallo. Che tempi, caro Tornatore. Mi hai riportato straordinariamente con un sussulto di emozioni, lontano negli anni, nei tempi della mia gioventù. In quel fascinoso mondo del cinema Calandra, quando nel giorno dello spettacolo a bordo della vecchia Wolkswagen verde di mio zio Turo,con megafono sul portabagagli, andavamo in giro, annunciando il film della sera. Io, ero sempre seduto sul sedile accanto a quello di mio zio, microfono in mano ed il foglietto sul quale mi scriveva ciò che dovevo dire. Le mie prime esperienze con il microfono,furono quelle:avevo dodici anni.Ogni film era meraviglioso,il più grande,spettacolare. Così era solito suggerire. Il vecchio altoparlante posto nella piazza del Popolo,annunciava il titolo del film del giorno,con la voce correttamente espositiva di mio zio. Così come alla domenica mattina, giorno di mercato.I  contadini che venivano giù in paese, di corsa venivano al cinema.La proiezione  a bordo dell'aereo,dopo due ore, termina. Ripongo la cuffia.Chiudo gli occhi, ed ascolto ancora la sua colonna sonora. E sogno quel tempo che non c'è più.
L'Atlantico è giù dodicimila metri.


domenica 19 agosto 2012

VIAGGIO NEL 1948. L'ANNO DEL "BIKINI"

"Venga pure il mese di luglio con il suo corredo di solleone, con i suoi quaranta gradi.Venga pure, anzi si faccia prestare qualche giorno dal mese di Giugno.Le ragazze lo ricevereanno con piacere quest'anno".
Questo è quanto si scriveva in un settimanale di varietà di quegli anni: Otto.Questo il titolo del settimanale di cronaca spicciola. Nell'Italia che usciva dalla guerra, che si leccava le ferite, si rimboccava le maniche, la vita riprendeva pian piano a risollevarsi.Quel'estate del '48, deve essere stata proprio l'estate della nascita del famoso "bikini", il costume da bagno che sconvolse animi e corpi, che pur non essendo fatto di cotone fulminante , fece molte vittime,così si scriveva e diceva a quel tempo.
Un tuffo a ritroso in quegli anni, per capire parte della nostra storia, cose trovate , nel mio andare di qua e di là, alla ricerca di racconti della nostra emigrazione.
Sulle spiagge italiane arrivava il bikini (illustrazione tratta dal settimanale Otto)
Il bikini, che sarà mai?Si chiedevano gli uomini, che scendevano in spiaggia, con i loro pettorali messi in bella mostra. Orsù, i costumi interi avrebbero lasciato il posto a questa sorta di costume che lasciava intravedere l'ombelico?
Leggo su Otto: il bikini è composto da due pezzi,un pezzo incomincia quattro dita sotto l'ombelico  e finisce subito dopo, è triangolare, si chiude sul fianco con un elasticoo con un nastro, può essere confezionato con maglia o con stoffa, è indifferente.Basta che sia confezionato.L'altro pezzo è più ridotto e tende a scomparire, è formato da due piccole coppe e le bretelle sono state eliminate perchè inutili e ingombranti;il reggipetto, infatti non è sostenuto che da un miracolo di equlibrio.
Non vi è dubbio che la cosa,qualche turbamento non solo estivo l'abbia procurato.Uomini e giovincelli  urlanti e smaniosi sulle spiagge della nostra Italia, aspettavano questo famoso bikini, che prometteva coe sensazionali.
Ecco perchè anche loro, oltre alle donne, smaniose di lasciarsi ammirare, aspettavano questo luglio che arrivava, per raggiungere le stazioni balneari alla moda, onde non perdere proprio nulla dello spettacolo che questo nuovo tormento, avrebbe procurato.

sabato 25 febbraio 2012

I politici italiani ed i monaci di Cluny.

Una vecchia stampa della Abbazia
Tanto tempo fa,a Cluny in Borgogna, se non erro nella Francia orientale, c'era una grande Abbazia, che poi l'incuria umana distrusse nel tempo, privandoci di una splendida e maestosa dimora monastica e di una biblioteca fra le più importanti d'Europa. Bene, a quel tempo, i monaci cluniacensi ebbero la felice idea di darsi delle regole proprie o per lo meno ammorbidire quelle che c'erano. E si dotarono al tempo di regole più morbide, rispetto a quelle dettate da Benedetto da Norcia, ritenute troppo rigide, evidentemente. Ed allora il famoso"ora et labora" benedettino divenne "ora et basta".
Loro, i monaci, dopo la sveglia data dal suono della campana nelle primissime ore del mattino, alle due, si riunivano in una delle chiese dell'Abbazia e sino alle cinque del pomeriggio, intonavano circa un centinaio, o forse più, salmi, lasciando alla servitù ed ai contadini i lavori manuali e della terra. Insomma, i contadini dovevavo anche provvedere non solo al proprio sostentamento, ma anche a quello dei monaci, che intanto cantavano. Ma le terre erano dei monaci, ed allora: o lavori caro contadino, o non mangi.Il tutto accadeva dal '900 a seguire.
Trasposizione nel futuro. Arriviamo al giorno d'oggi. 
Un pò, direi, quello che passa nella politica italiana da un pò di tempo a questa parte. Loro, i politici, senza abiti monastici; si riuniscono per ore ed ore, a parlare a discutere e quindi decidere, e imporre. Democraticamente. Al popolo, il compito di lavorare e produrre. Di inventarsi il lavoro, quando non esiste.Loro, i politici, non si svegliano mai alle due, come i vecchi monaci; a quell'ora, caso mai vanno a coricarsi, dopo aver discusso per ore, per offrire saggezza ed opportunità  per la nazione. E regole.  E sacrifici. Costantemente.
Come dire, il sacrificio del povero per il benessere del ricco.Per loro, i politici, val bene una deformazione del detto benedettino "ora" che tutto vada bene, e poi aggiungo il "basta" clunaciense.
Insomma non sempre l'abito fa il monaco, ma lo rende pur sempre un uomo di chiesa. E, forse, qui sta l'equivoco.


venerdì 17 febbraio 2012

IL VENERDI' LETTERARIO. Quando gli emigrati parlavano il "Cocoliche"


I "conventillos" di Buenos Aires
A Buenos Aires, nella lontana terra d'Argentina, era diventata una moda. Parlare il "cocoliche" era divertente. Chissà,cosa avrà pensato Cocolicchio, emigrato calabrese, arrivato dall'altra sponda dell'Atlantico in cerca di fortuna, quando apprese nel corso della sua permanenza, che il suo modo di parlare faceva sorridere e dava luogo ad ironia.E già, il nostro emigrato si sforzava di parlare il "castellano", ma proprio non ci riusciva nei suoi primi tempi a Buenos Aires, ed allora mischiava lo spagnolo con il dialetto calabrese. Pensate un pò, cosa ne venne fuori. Intanto, era una cosa che faceva anche sorridere, perchè alcune parole storpiate del suo nuovo "idioma" avevano tutt'altro significato. Ricodo di aver letto alcuni anni fa, mentre sorseggiavo un "mate" in casa di amici in Suipacha, lunga arteria della città ciò che scrisse Gonzalez Arrili, a proposito del Cocoliche, trasformazione ed identificazione del linguaggio del nostro caro Cocolicchio:"...egli lavorava in un circo e portava sulla testa un grande cappello e una camicia a grandi quadroni colorati, aveva un paio di baffi, modellati con l'acqua che terminavano ai lati con due grandi cerchi neri di esemplare rotondità....era un manuale non traducibile di una miriade di parole del suo dialetto mischiate al castellano".
Insomma, lui cercava con questo linguaggio di farsi immediatamente comprendere sul lavoro e nella vita quotidiana, in un almacen  (negozio di generi alimentari) o ai mercati cittadini,nei cafè o nelle calles  ( le vie) della città.Bisogna, ovviamente, comprendere che proveniva da una realtà misera, e spesso era quasi analfabeta; però aveva dignità, umiltà, spirito di sacrificio e voglia di lavorare. Fu anche trasportato nel teatro comico argentino, ed ebbe appunto successo, rappresentato com'era,nella sua immagine, nella descrizione che ho fatto prima.
In un momento teatrale , un attore argentino dell'epoca, credo siano i primi anni del '900, di nome Petray, che sembra avesse grande facilità a interpretare nella imitazione, gli emigrati italiani "acriollados" ,cioè resisi criollos, ovvero del luogo, raccontava: " Adiós amigo Cocoliche, de donde sale tan empilchao (bien vestido)? La risposta fu : Vengue dede la Petagoña co este parejiere macanuto, amique!
Certo che un qualcosa il nostro Cocolicchio lo lasciò;tuttora, nel lunfardo, diciamo così, il dialetto di Buenos Aires, diverse parole sono rimaste identiche e quindi invece di dire: vamos a trabajar ( andiamo a lavorare ) si dice vamos a laburar. Oppure  gambetear (schivare) o yeta, nel senso di gettare; questo è solo un esempio, questo , ovviamente.L'integrazione,anche letteraria, avvenne nel tempo,magari i suoi figli e quelli di altri emigrati della sua generazione, mentre prima sorridevano e scherzosamente sbeffeggiavano i loro genitori, poi dovettero adeguarsi a usare termini di quel linguaggio che tale Cocolicchio, a volte deriso e ironicamente preso in giro, aveva involontariamente coniato. Ed allora anche lì, smisero di ridere di quella grande camicia a quadroni colorati, perchè deriderlo, significava deridere se stessi, visto che in certi termini, usavano lo stesso linguaggio. Cocolicchio, insomma, vive ancora nelle strade di Buenos Aires.