venerdì 17 febbraio 2012

IL VENERDI' LETTERARIO. Quando gli emigrati parlavano il "Cocoliche"


I "conventillos" di Buenos Aires
A Buenos Aires, nella lontana terra d'Argentina, era diventata una moda. Parlare il "cocoliche" era divertente. Chissà,cosa avrà pensato Cocolicchio, emigrato calabrese, arrivato dall'altra sponda dell'Atlantico in cerca di fortuna, quando apprese nel corso della sua permanenza, che il suo modo di parlare faceva sorridere e dava luogo ad ironia.E già, il nostro emigrato si sforzava di parlare il "castellano", ma proprio non ci riusciva nei suoi primi tempi a Buenos Aires, ed allora mischiava lo spagnolo con il dialetto calabrese. Pensate un pò, cosa ne venne fuori. Intanto, era una cosa che faceva anche sorridere, perchè alcune parole storpiate del suo nuovo "idioma" avevano tutt'altro significato. Ricodo di aver letto alcuni anni fa, mentre sorseggiavo un "mate" in casa di amici in Suipacha, lunga arteria della città ciò che scrisse Gonzalez Arrili, a proposito del Cocoliche, trasformazione ed identificazione del linguaggio del nostro caro Cocolicchio:"...egli lavorava in un circo e portava sulla testa un grande cappello e una camicia a grandi quadroni colorati, aveva un paio di baffi, modellati con l'acqua che terminavano ai lati con due grandi cerchi neri di esemplare rotondità....era un manuale non traducibile di una miriade di parole del suo dialetto mischiate al castellano".
Insomma, lui cercava con questo linguaggio di farsi immediatamente comprendere sul lavoro e nella vita quotidiana, in un almacen  (negozio di generi alimentari) o ai mercati cittadini,nei cafè o nelle calles  ( le vie) della città.Bisogna, ovviamente, comprendere che proveniva da una realtà misera, e spesso era quasi analfabeta; però aveva dignità, umiltà, spirito di sacrificio e voglia di lavorare. Fu anche trasportato nel teatro comico argentino, ed ebbe appunto successo, rappresentato com'era,nella sua immagine, nella descrizione che ho fatto prima.
In un momento teatrale , un attore argentino dell'epoca, credo siano i primi anni del '900, di nome Petray, che sembra avesse grande facilità a interpretare nella imitazione, gli emigrati italiani "acriollados" ,cioè resisi criollos, ovvero del luogo, raccontava: " Adiós amigo Cocoliche, de donde sale tan empilchao (bien vestido)? La risposta fu : Vengue dede la Petagoña co este parejiere macanuto, amique!
Certo che un qualcosa il nostro Cocolicchio lo lasciò;tuttora, nel lunfardo, diciamo così, il dialetto di Buenos Aires, diverse parole sono rimaste identiche e quindi invece di dire: vamos a trabajar ( andiamo a lavorare ) si dice vamos a laburar. Oppure  gambetear (schivare) o yeta, nel senso di gettare; questo è solo un esempio, questo , ovviamente.L'integrazione,anche letteraria, avvenne nel tempo,magari i suoi figli e quelli di altri emigrati della sua generazione, mentre prima sorridevano e scherzosamente sbeffeggiavano i loro genitori, poi dovettero adeguarsi a usare termini di quel linguaggio che tale Cocolicchio, a volte deriso e ironicamente preso in giro, aveva involontariamente coniato. Ed allora anche lì, smisero di ridere di quella grande camicia a quadroni colorati, perchè deriderlo, significava deridere se stessi, visto che in certi termini, usavano lo stesso linguaggio. Cocolicchio, insomma, vive ancora nelle strade di Buenos Aires.

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